Gli allevatori Toscani
Guardali in faccia gli allevatori Toscani!
Dal loro modo di guardare si direbbe che non sono soltanto testimoni, ma giudici. A loro non interessa come sei fatto, ma di cosa sei fatto. Guardali in faccia gli allevatori Toscani: hanno tutti la pelle arrossata, le ciglia e i capelli bruciacchiati, proprio come se tornassero da uno dei loro soliti viaggi nell’inferno. E senza la loro testimonianza, nessuna comprensione del mondo dei vivi e delle cose vive sarebbe possibile, né della libertà umana. Gli allevatori Toscani, quelli della Cinta Senese, hanno il cielo negli occhi e l’inferno in bocca. Sono il solo popolo al mondo che guarda diritto anche quando guarda di lato, e guarda di lato senza guardare di traverso. Vai da loro e ascolta come parlano, non per il loro accento, ma per quel che dicono. Una gloria strana, ma completamente degna, appartiene a questo popolo singolare: prepotente e ostinato, fiero e astuto, rude e amante delle parole. Non si tratta delle parole semplici che piacciono ai chiacchieroni, quelle leggere e scivolose che escono dalla bocca senza sforzo, umide di saliva e prive di sostanza; ma delle parole forti, pesanti e robuste, che lasciano un’impronta indelebile e attraversano l’aria come proiettili.
Il maiale, fedele compagno dell’uomo. Una storia lunga da generazioni
La più grande sciagura capitata a molti maiali, non a tutti ma alla maggior parte, fu quella di imbattersi nell’uomo. Il maiale divenne la “sozza” (zozza?/turpe) metafora dell’incontinenza umana, ma anche il simbolo della fertilità, la vittima sacrificale prediletta delle antiche dee delle messi (del raccolto?) e la vittima sacrificale necessaria per lavare (purificare) con il suo sangue la colpa altrimenti indelebile dell’omicidio. Ambiguo abitatore dell’inafferrabile confine che separa la cultura dalla natura, compagno inseparabile di un santo quale l’Abate Antonio, il maiale è stato tutto questo e altro ancora.
Noi Allevatori Toscani della Cinta Senese non svuotiamo di questi significati il maiale nemmeno in questa pagina, riducendolo solamente (anche se non è poco) a prosciutti e insaccati. In questo contesto, presentiamo una storia ricca di significati dove il porco ha occupato un ampio spazio, nonostante il dispregio e il discredito di cui è stato oggetto, come riconobbe il dotto ferrarese Antonio Frizzi (La Salemeide, Venezia 1772): «All’uom l’arte mostrò d’arar la terra / […] / Del vomero il model diede col grugno / […] e grifolando insegnò i solchi».
Il porcello e l’allevatore occupano un posto non piccolo nell’epopea dell’iconografia occidentale. Forse non riescono a rivelarsi protagonisti assoluti, come invece capita in alcuni passaggi della storia economica e della letteratura mondiale, ma sono efficacissimi comprimari. Il porcello è addirittura una “spalla” indispensabile in molte delle sue scene-madri. Esemplare è il caso delle raffigurazioni allegoriche dei mesi dell’anno, segnati dai lavori nei campi: il maiale è l’unico animale sempre presente, e si rivela, fuori di retorica, il più fedele compagno del contadino.
Il percorso di immagini in questa prima pagina copre circa due millenni, dagli affreschi Pompeiani fino alle opere contemporanee di maestri come Chagall, Mirò e Andy Warhol. Ecco le interpretazioni dell’amico suino attraverso opere insigni di pittori come Ambrogio Lorenzetti, Albrecht Dürer, Bosch, Bruegel, Rubens, Rembrandt, Paul Caugin e molti altri, capolavori di grandi maestri e opere anonime, che diventano, in fondo, una piccola antologia della storia dell’arte e dell’allevatore stesso. Il “nostro” maiale è un vero compagno dell’uomo in molte tappe della sua storia.
Eumeo: Il fedele allevatore di Odisseo
L’ospitale Eumeo è il fedele allevatore di Odisseo, anzi, il ministro incaricato di quel bestiame e il capo dei guardiani di porci. Costretto a un duro destino, egli, contro il suo volere, manda maiali al palazzo per i malvagi pretendenti, ma in cuor suo rimane fedele al padrone; quando sopraggiunge l’ospite ignoto, gli offre alloggio e cibo (Odissea XIV, 419-452 a.C.). Per lui ammazza un grasso porco e comincia l’operazione culinaria secondo un preciso rito sacrificale che coinvolge esplicitamente gli dei, invocando il loro consentano affinché consentano il ritorno del suo signore, inconsapevole del fatto che il suo ospite è proprio il tanto atteso Odisseo.
L’allevatore non è dunque solo fedele al suo signore, che crede assente, ospitale e pio verso gli dei immortali. Egli è anche abile nel trattare la bestia uccisa e giusto spartitore e distributore del cibo. Alle sette parti – non uguali, perché all’ospite, anche se è un mendico, spetta la migliore…
L’agricoltore, uomo onesto e coltivatore
«E l’uomo che [i nostri antenati] lodavano, lo chiamavano buon agricoltore e buon colono; e chi così veniva lodato stimava di aver ottenuto una lode grandissima. Ora, reputo sì coraggioso e solerte nel guadagnare chi si dedica alla mercatura, ma, come dicevo sopra, soggetto a pericoli e sciagure. Dagli agricoltori, invece, nascono uomini fortissimi e soldati valorosissimi, e il loro guadagno è giusto e al riparo da ogni insicurezza, nulla ha di odioso; e coloro che si dedicano all’agricoltura non sono tratti a cattivi pensieri.» Catone detto il Censore, in De agri cultura, opera composta attorno al 160 a.C..
Attraverso la sua opera, Catone propone di legittimare e nobilitare la tradizionale vocazione agraria delle gentes patrizie contro l’affermazione di una nuova classe, quella equestre, la cui ricchezza si fonda sulle ricchezze mobiliari e sui commerci. All’ideale ellenizzante dell’humanitas, alla cui diffusione contribuiva in quegli stessi anni il circolo degli Scipioni, Catone oppone il modello del vir bonus colendi peritus, vale a dire, l’uomo onesto ed esperto coltivatore, vero civis Romanus, valoroso soldato. Dopo la praefatio, l’opera assume l’aspetto di una guida per il pater familias proprietario agricolo. Catone suggerisce come disporre le piantagioni, indica gli obblighi della servitù e dei fattori, illustra le tecniche agricole e i procedimenti di lavorazione, inserendo nell’opera, contemporaneamente, formule religiose, rituali o ricette di cucina.
Il figlio prodigo guardiano di porci
Nel ‘70 viene scritta una delle più conosciute e citate parabole, tra le molte che costellano i Vangeli, quella del figlio prodigo, che racconta la storia di un giovane scapestrato che esige dal padre in anticipo la sua parte di eredità per “scialacquarla” nelle gozzoviglie, finché da ultimo si pente e ritorna a casa. Ma prima della resa, per mantenersi dopo aver finito tutti i soldi, si impiega come guardiano di porci.
Sfugge a molti il significato simbolico di questo particolare volutamente inserito dall’evangelista. Agli occhi del pio Israelita, infatti, non esiste animale più immondo del maiale, per cui la scelta del ragazzo appare come il fondo dell’abiezione, peggiore delle precedenti gozzoviglie e sregolatezze. Questo elemento appare come uno degli spartiacque più profondi tra la cultura Ebraica e quella Cristiana, dal momento che, almeno nell’Alto Medioevo, quello dell’allevatore era uno dei mestieri più stimati e tenuti in grande considerazione presso l’opinione pubblica.
La professione dell’allevatore al tempo dei Longobardi
L’Editto di Rotari, la prima raccolta di leggi emanata in Italia dopo la fine dell’Impero Romano dai Longobardi nel 643 d.C., evidenzia come la categoria lavorativa più tutelata fosse quella dei pastori, e al loro interno, in particolar modo, degli allevatori. Chi avesse ucciso uno di loro sarebbe stato condannato al pagamento di una multa di 50 lire, cifra esorbitante per l’epoca, contro le 20 di chi si fosse reso colpevole dell’assassinio di un contadino. La vita di un allevatore valeva, quindi, due volte e mezzo quella di un agricoltore.
Ma questo non deve destare stupore dato che la struttura stessa dell’economia longobarda, di tipo silvo-pastorale, induceva a questa sopravvalutazione della professione dell’allevatore; inoltre, la carne di maiale era presso i popoli germanici la preferita per l’alimentazione.